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In punta di parole





Michela Martelli scrive in un edotto, iridescente, perfetto stile critico di cui ammiro senz’altre parole la profondità d’indagine e la duttilità di riferimenti. Il materiale si presenta composto e al tempo stesso dotato di una  fascinazione estrema ed innegabile. SDS.

 

Acido Solforico

di Amélie Nothomb

 

«Venne il momento in cui la sofferenza altrui non li sfamò più: ne pretesero lo spettacolo».

Così inizia Acido Solforico, l’ultimo romanzo di Amélie Nothomb, uscito in Italia il mese scorso. Lucida e tagliente, ecco davanti a noi la dittatura dello schermo, trasfigurata in una metafora straniante e violenta, ma di grande potenza significativa: un reality show che simula in tutto e per tutto un campo di sterminio.

I concorrenti di «Concentramento» - così si intitola il programma inventato dalla Nothomb - vengono reclutati a caso da una troupe televisiva per le strade di Parigi, caricati a forza su vagoni piombati e costretti alla prigionia in un campo dove altri concorrenti (volontari, a differenza dei primi) interpretano il ruolo di kapò. La sofferenza diventa un’arma nella guerra dell’audience; la telecamera non ha pudore di fronte ad essa. L’eliminazione dei concorrenti è una pubblica esecuzione decisa dagli spettatori con il telecomando, un intimo e terribile confondersi di realtà e finzione, dove l’ironia caratteristica della Nothomb diventa disgusto per una società in cui tutto è immagine e spettacolo.

 

Fedele allo schema binario di molti suoi romanzi, la Nothomb conduce la narrazione attraverso il rapporto sado - masochistico tra due personaggi, una vittima e un carnefice, che talvolta sembrano scambiarsi i ruoli: nella claustrofobica cornice tracciata dallo sguardo delle telecamere di Acido Solforico, si muovono due giovani ragazze, Pannonique, bellissima prigioniera, simbolo utopico di moralità, e Zdena, kapò ripugnante e volgare, sintesi della vacuità della tv spazzatura, che si invaghisce di lei. In questo sentimento, morboso e abnorme per il contrasto con l’ambiente in cui nasce, sta la chiave di questo romanzo, in cui tutto appare studiatissimo, a partire dai nomi dei personaggi. Alcuni esempi: Pannonique significa «ungherese» e ricorda il genocidio degli ebrei compiuto dai nazisti nell’Europa orientale, ma richiama anche il soprannome dell’imperatore romano Tiberio, vissuto all’epoca della crocifissione di Cristo; Zdena è un personaggio negativo di un racconto di «Amori ridicoli» di Kundera, un autore che ha molto parlato dei gulag sovietici.

 

A differenza dei kapò, gli internati nel campo vengono privati del nome, sostituito da un codice: nel segno di un nominalismo rigoroso, di sapore quasi medievale, ogni nome traduce una personalità, un’identità che ogni prigioniero custodisce segreta per mantenere simbolicamente libera e incontaminata la propria essenza, per farne uno scudo contro la sofferenza. Le vittime non possono fare altro che subire le violenze dei kapò, ma hanno la possibilità di non lasciar trasparire il proprio dolore, rimanendo «di marmo» e privandosi così di qualsiasi fascino mediatico. I kapò, pur avendo scelto volontariamente il loro ruolo, finiscono per restarne prigionieri, degradandosi a meccanica ripetizione di gesti. Non si salva neppure il pubblico, un gregge la cui indignazione è direttamente proporzionale al desiderio di alimentarla, guardando. Leggendo, non si può fare a meno di provare disgusto, lo stesso disgusto che proviamo ogni giorno davanti alle immagini della sofferenza dei poveri del mondo; ma il fastidio si amplifica nel momento in cui si comprende come quella sofferenza ci appaia ovattata, lontana, quasi normale.

 

In una recente intervista, parlando delle polemiche che si sono accese in Francia dopo la pubblicazione del romanzo, la Nothomb ha dichiarato di aver ricevuto molte lettere da ex deportati, che l’hanno ringraziata per il modo in cui ha descritto la realtà dei campi di sterminio nazisti.

Acido Solforico è certamente un romanzo caustico e disturbante, forse il più spiazzante mai scritto dalla Nothomb, anche perché arriva a sancire un deciso distacco dal sé dopo il racconto biografico del precedente Biografia della fame. Il paragone tra reality show e campo di concentramento può sembrare talvolta dettato da sensazionalismo, ma, sviluppato com’è senza il consueto autocompiacimento ironico, e con una concisione a tratti lapidaria, non lascia spazio ad equivoci. Nel ritratto allucinato della società mediatica si celano reminiscenze molteplici, dal celeberrimo 1984 di Orwell – riferimento quasi ovvio, in tema di reality show – alla prigione dorata di The Truman Show, al «Panopticon» di Jeremy Bentham – carcere “ideale” basato su un concetto, mediatico ante litteram, di «invisibile onniscienza», nel quale i prigionieri sono sempre sorvegliati da guardiani che non possono mai essere visti da loro.

 

Amélie Nothomb dà l’impressione di scrivere di getto, come se registrasse i propri pensieri senza pudore, non accorgendosi della provocazione che crea: è questo l’aspetto più seducente del suo stile, complicatissimo e spontaneo insieme, ma è anche il più rischioso, poiché spesso può sembrare dettato da un’esagerazione fine a sé stessa che non può fare a meno di suscitare polemiche. I libri della Nothomb trasudano di citazioni, di richiami culturali, di digressioni, che possono sembrare sterili esercizi di stile, soprattutto al lettore che vi si accosta per la prima volta. La storie sono venate della letterarietà profonda dello studioso che si diverte a rintracciare nella realtà i segni di ciò ha letto nei libri, della frenesia del bambino che ricostruisce tutto l’universo nella sua fantasia: talvolta la finzione sembra avere il sopravvento e le citazioni rivelano troppo scopertamente la propria origine, ma il risultato è sempre, paradossalmente, realistico. La Nothomb mostra il rovescio delle cose, capovolge la normalità e gli schemi scavandone ogni sfumatura, ma sembra farlo senza premeditazione alcuna: i luoghi, le persone, gli oggetti sono avvolti e trasfigurati dalla personalità della scrittrice, ma non perdono la concretezza.

 

Ho letto questo libro tutto d’un fiato, colpita, pagina dopo pagina, dalla capacità della Nothomb di ritrarre le contraddizioni dell’essere umano: in Acido Solforico più che mai, l’autrice squarcia la mente dei suoi personaggi e di riflesso quella dei lettori, dando forma tangibile al disgusto e costringendo il lettore a rinvenire dentro di sé le tracce di quella abiezione.

Amélie Nothomb piace o non piace, sin dalla prima lettura: non ci sono vie di mezzo; ma non si può negare che sia anticonvenzionale. La sua scrittura è un insieme inscindibile di universale e di particolare; nei suoi libri, sempre molto brevi, è racchiusa la lotta dell’individuo, schiacciato tra la terra e il cielo, tra l’animale e il divono, tra la materialità del corpo e la tensione all’ascesi.

 

MM.


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