Pier Maria Galli
Dalla sensibile corrispondenza con Pier Maria, precedente a questo articolo, e dalla lettura della sua intervista che, per motivi logistici, abbiamo dovuto eseguire via mail, ritengo questo autore di grande fascino, umano ed artistico.
Il suo talento peculiare di indagine sul limen dei sentimenti sovente sfumati e sui corrispettivi paesaggistici è un pregio d’artista che vi consiglio seriamente di attraversare come viaggio psichico tra arcobaleni nascosti. SDS
Intervista
(I: intervistatrice: Simonetta Della Scala, P: Pier Maria Galli).
I:
Che sensazione ti suscita essere intervistato?
P: Difficile dire. Si rischia di mettersi a nudo più di quanto lo
consento scrivendo. La sensazione credo sia questa, forzare dei limiti,
attraversare un inesplorato con la voce.
I:
La notte possiede un sapore per te? Se sì quale? E’ flash di colori multipli o
monocolore, e monocorde nel suono prevalente, la associ più al baluginìo fitto
e confuso d’emozioni e suoni (la cosiddetta vita
notturna) o al silenzio di una stanza calma e avulsa dalla frenesia del
giorno? Oppure al mistero di una
sensualità arcana?
P: Amo i margini. Dove una cosa finisce ed inizia ad
esserne un’altra. Per questo nei miei testi appaiono spesso la mattina e la
sera, due orli dove la luce va a versarsi o ritrarsi. La notte no. E’ una linea
retta. Mi ha sempre lasciato del tutto indifferente.
I:
In primis, parlaci di te, porgici una presentazione che rispecchi te stesso ai
tuoi occhi che ti guardano frugando il tuo soma e la tua mente in uno specchio,
e la tua policromia, qualcuna delle tue angolazioni: sono acuminate o morbide,
sferiche, se sferiche percepisci un centro aggregante cui far riferimento nel
coacervo della personalità?... E poi parlaci di quel te che ora è presente
nella contingenza, e fallo come vuoi: a pennellate, bagliori, citazioni di
altri o di tue opere anche ma in sintesi, decidi tu... massima libertà...
P: Ho sempre avuto un’idea di me come di
una stanza. Così come osservo ciascun individuo ambientato tra alcuni lati. La
mia stanza possiede solo una
scrivania, un divano e qualche libro. E dei fogli sparpagliati. Da qualche
parte scrivevo: “accade che
per intere giornate (soprattutto quando la mia donna mi telefona perché è
senz'altro felice) io non esca del tutto di casa. per essere più precisi, non
esco proprio da una stanza (sto sul divano tra le mani di un libro, o fingendo
di avere un libro tra le mani). per dirla tutta, se non a tratti, per
prepararmi un caffé in cucina o per spalancare la bocca di lei sull'altro lato
dello specchio, nemmeno esco da me stesso.”
I:
Che posto occupa la scrittura nella tua esistenza (e nel corso degli anni se
questa relazione è mutata?)? E interiormente che rilevanza ha hic et nunc?
P: Spesso ho l’impressione che detti la mia giornata. E se vuoi, più
genericamente, archi di vita. E’ come se prescrivesse i gesti ed i movimenti.
La vita, quella vissuta, è soltanto un diario scritto di nascosto, come se la
scrittura anticipasse l’accaduto e le parole. E’ quella che chiamo “l’aria
parlata”.
I:
Hai mai virato verso una scrittura cosiddetta “terapeutica” ritieni che possa
esistere tale forma nell’arte degna di questo nome?
P: Innanzitutto mi verrebbe da chiederti cosa intendi tu per arte.
Io l’ho sempre collocata nel rapporto tra noi e le cose che ci stanno intorno.
E’ un viaggio, spesso competitivo e compulsivo, sull’orlo delle cose. Lo
sguardo, insomma, il rumore che provoca lo sguardo nel suo scrivere. Mi lascia
distaccato ed annoiato l’introspezione dell’io in qualsiasi manifestazione
artistica. Ed aggiungo che non ho mai amato i professionisti dell’arte. In ogni
tentativo dilettantesco si cela il seme del frammento geniale. Mi accade spesso
di leggere autori considerati minori e, tra decine di poesie o testi mediocri,
di imbattermi in quel piccolo ma universale capolavoro che rende l’autore per
un istante geniale.
Se quindi per arte terapeutica intendi una sorta di medicina dell’anima ti
rispondo no. Non vi sono mai caduto e non ci credo affatto.
I:
Puoi ricostruire una sorta di tua cronologia artistica e fornirci un elenco dei
tuoi lavori sia in prosa che in poesia (se ne hai in prosa) e delle tue
esperienze performative (se ne hai fatte)? Ami esibirti, “accompagnare” le tue
poesie?
P: Credo che la mia biobibliografia appaia in calce all’intervista e
tanto basta. Voglio solo aggiungere il nome di una persona che non ho mai
conosciuto ma che per strade ignote nei primi anni ’80 giunse ai miei testi e
pubblicò la mia prima raccolta: Adriano Spatola. Gli devo, emotivamente e non
solo, molto. Moltissimo.
I:
Hai molto altro materiale inedito? Come pensi di gestirlo?
P: No, non molto, se per “materiale” intendi qualcosa di finito o
comunque definibile. E alcuni testi che mi riguardano troppo. Troppo inediti
anche per me.
I:
Perché il blog (cantiere.splinder.com), cosa troviamo di Pier in quelle parole,
sensi altrimenti celati, connessioni neuronali della ratio, immagini/sogno,
decostruzioni, o cos’altro?
P: Non credo che il blog sia, anche per sua natura ed origine, il
luogo ideale per pubblicare testi poetici. Tuttavia, per la sua immediatezza
nel proporre e per la sua capacità di raccogliere cose, costituisce un ottimo
strumento attraverso il quale manifestarsi. Poi chiedersi “perché il blog”
rimanda al domandarsi perché pubblicare. E molto sinceramente non ho risposte.
Talvolta, tuttavia, penso che il pubblicare produca in me un effetto
esorcizzante. Certi testi mi assillano. Mi seguono ovunque. In qualsiasi ora
della giornata. Solo messi in rete, sotto un seppur modesto riflettore, si
rendono improvvisamente a me quasi estranei.
I:
Tendi ad organizzare i tuoi testi attorno ad un nucleo, formi delle “Raccolte
tematiche” ed esaustive di un tuo certo percorso interiore relativo ad un periodo
temporale circoscritto?
P: Per mia natura manco di progettualità. Ovunque ed in qualsiasi
cosa. Se esiste una “scaletta”, questa è del tutto spontanea, incontrollata.
I:
Esiste un lettore privilegiato a cui in anteprima porgi i tuoi lavori appena
conclusi del cui sguardo puoi completamente fidarti e SAI che sarà sincero?
P: No. L’anteprima è l’accadere. Esattamente come nella mia
quotidianità. Esistono persone a cui tengo molto, come lettori. Talvolta metto
in rete testi soltanto nella “speranza” che queste persone li leggano e nel
loro dire io sappia cogliere un frammento di affinità. L’incoraggiamento, se
così vogliamo dire, è osservare di essermi sufficientemente lasciato scoprire
da loro.
I:
Che opinione conservi dei tuoi lavori? C’è un’opera in cui senti di poterti
identificare con maggiore approssimazione o che ti suona come più riuscita?
P: Scrivere è un riepilogo del giorno a venire. Non serbo opinioni a
posteriori sulle mie scelte. Cerco di scrivere cose che mi appagano. Cerco che
il giorno successivo sia migliore di quello che lo precede.
I:
Ti piace la concisione nell’espressione? Dal tuo libro non sembrerebbe, si
avverte come una ricerca di respiro, di particelle d’aria cristalline e
gremite, si sentono i filamenti shantung di seta colorata che si intreccia in
una lunga, avvolgente maglia per niente rigida ma anzi mobile, che corre tra le
dita sinuosa, fitta e larga insieme, come davvero, elastica, proteiforme a
seconda dei sensi e dei ricordi o proiezioni coinvolti nel tuo dire in quell’istante,
mi sbaglio?
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